mercoledì 29 luglio 2015

MI CHIAMO CLARENCE CHAMBERLIN

  

MI CHIAMO CLARENCE CHAMBERLIN
Monologo 
Liberamente tratto da "Giuseppe Mario Bellanca e i pionieri sulle macchine volanti"
di Accursio Soldano


  Mi chiamo Clarence Chamberlin, sono nato in Ohio l’undici novembre del 1893 ed ho iniziato a volare nel 1918 dopo essermi arruolato nel reparto Aviazione dell’esercito e voglio raccontarvi quello che accadde nella settimana a partire dal 15 maggio 1927 quando Charles Lindbergh prese il volo per sorvolare l'atlantico. Voglio raccontarvelo per amore della verità e perché… perché è giusto che sia così. Perché è vero che la storia la fanno i vincitori, ma non sempre chi arriva secondo è uno sconfitto. E Giuseppe Bellanca, è uno che ha vinto!
  Quella settimana, al Roosevelt Field di New York in attesa di prendere il volo per Parigi c'erano tre piloti. Charles Lindbergh, un giovane pilota postale che si era presentato con un aereo costruito dalle industrie Ryan e che aveva battezzato Spirit of St. Louis, il comandante Richard Byrd, che aveva scelto il mio amico Bert Acosta come pilota ed io, con il Miss Columbia, l’aereo costruito da un ingegnere siciliano di nome Giuseppe Bellanca, un uomo che ha passato la sua vita in compagnia di un rimpianto: non aver venduto a Lindbergh il suo monoplano per la mitica trasvolata in solitario New York-Parigi. La prima della storia.
La vita in seguito gli avrebbe avrebbe dato tante soddisfazioni ma nulla ha potuto colmare il vuoto di quell'appuntamento mancato con la leggenda. Ma voglio raccontarvi, affinché tutti voi conosciate la verità, come si sono svolti i fatti.
Io come vi dicevo mi chiamo Clarence Chamberlin ed ho cominciato a volare con gli aeroplani costruiti da Peppino Bellanca nel 1919 e sapevo benissimo, così come lo sapevano tutti, che un suo aereo poteva fare la trasvolata oceanica, perché gli aerei costruiti da Giuseppe Bellanca erano affidabili, veloci e sicuri. Avremmo seguito la rotta dei piroscafi. Avevamo salvagente, pistole, bombe fumogene per segnalazioni. Il grosso serbatoio di carburante che si trovava nella cabina poteva essere svuotato rapidamente e utilizzato per far galleggiare l’apparecchio, beninteso se questo non si fosse capovolto, ma eravamo fiduciosi.
Il mio aereo, il “Columbia”, aveva un peso totale di quasi 2.500 chilogrammi inclusi 1.920 litri di benzina e 90 di olio, poteva viaggiare ad una velocità di 180 chilometri orari ed era munito di un motore Wright Whirlwind da 400 cavalli, raffreddato ad aria. Era il migliore in circolazione e ce la poteva fare, doveva essere il primo aereo ad atterrare a Parigi, ma così non fu. Volete sapere perché sono così sicuro che avremmo vinto noi?

 Beh, cinque giorni prima, un martedi se non ricordo male, si, martedì 12 Aprile 1927 io e Bert siamo decollati dal Roosevelt Field alle 9 e 30 del mattino con 375 galloni di carburante e qualche piccolo accorgimento nella cabina. Il piano era molto semplice, Bellanca ci aveva chiesto di  volare avanti e indietro sopra Long Island fino a quando la benzina non fosse finita, non tanto da schiantarci al suolo, ma fino a quando nel serbatoio fosse rimasta quella necessaria per atterrare.
Voleva sapere quante ore il suo aereo poteva stare in volo.
Beh, io e Bert abbiamo volato per due giorni. Avanti e indietro, sopra e sotto Long Island, sopra i grattacieli che ormai li conoscevamo a memoria. Vi potrei persino dire chi ci abita. Quando siamo tornati a terra erano passate 51 ore, 11 minuti e 25 secondi e fummo accolti da un gran sorriso di Giuseppe.
Lui sapeva che per arrivare a Parigi, volando in quel modo, ci sarebbero volute 45 ore, cavolo, noi avevamo volato per 51 ore, altro che Parigi, potevamo arrivare fino a Vienna senza problemi.
Come dicevo, quella settimana al Roosevelt field avevamo un appuntamento con la storia, dovevamo essere i primi a volare dall’america in europa senza fare nessun scalo, senza fermarci da nessuna parte a rifornirci, dovevamo aprire una nuova via. 
Perché eravamo lì?
Tutto era cominciato sette anni prima, nel 1919, quando Raymond Orteig il proprietario del lussuoso Hotel Lafayette di New York decise di offrire un premio di 25.000 dollari al primo aviatore che avrebbe attraversato l'Atlantico, da New York a Parigi. O da Parigi o New York, non importava, quel che interessava era che fosse un volo non-stop.
Cosa da pazzi, una cosa impensabile.
All’iniziativa si associò il giornale francese “Paris Temps”. Il premio messo in palio da Raymond Orteig e i 10.000 franchi offerti dal giornale francese, in realtà erano poca cosa. Quella somma non sarebbe bastata neppure a pagare gli interessi sugli investimenti totali. Erano piuttosto la fama, il cinema, gli articoli sui giornali e soprattutto l'avventura e la gloria il vero motore di chi avesse voluto tentare la traversata.
Da quel momento, il Roosevelt Field divenne la sede centrale di molti aviatori che volevano tentare l'impresa. Oltretutto a quel tempo le continue innovazioni in campo aeronautico facevano supporre che quella traversata fosse possibile. Ma non era esattamente così. Parecchi piloti dell'epoca infatti ci provarono, ma nessuno riuscì a raggiungere le meta e molti persero la vita.
Oltre a noi, voglio dire, io e Bert che avevamo già volato su un aereo di Bellanca, c’era anche un giovane pilota delle linee aeree postali di Saint Louis, di nome Charles Lindbergh che... Ok, vi racconto come il destino può essere beffardo.
Dopo il nostro giro su Long Islands tutti i giornali americani parlavano delle prestazioni degli aerei disegnati da Giuseppe, al punto che Lindbergh stesso dichiarò “Se posso avere un Bellanca, volerò da solo”.
Lindbergh quindi si recò alla fabbrica di Bellanca per comprare un suo aeroplano e devo dire che trovò peppino disponibile alla vendita. Ma non il suo socio, Charles Levine.
Charles Levine era un industriale di Brooklyn che cominciò la sua ascesa nel mondo degli affari vendendo automobili di seconda mano. Fece milioni di dollari dopo la guerra e il suo fiuto per gli affari lo avvicinarono al mondo dell'aviazione. Con Bellanca creò la "Columbia Aircraft Corporation" mettendo a disposizione dell'ingegnere siciliano un capitale iniziale di 50.000 dollari con i quali Giuseppe riprese il suo vecchio progetto del WB2, costruì l’aereo e lo battezzò "Columbia".
Insomma, in un primo momento Levine tentò di alzare il prezzo chiedendo ben 15.000 dollari per vendere l’aereo, convinto che quel pilota non avrebbe mai trovato quella cifra; ma quando Lindbergh tornò nella sede della società con il denaro in mano e pronto all’acquisto, Levine rispose che gli avrebbe venduto l'aeroplano, ma si riservava il diritto di scegliere l'equipaggio.
A quel punto Lindbergh, non potendo disporre del WB2 e tuttavia intenzionato a tentare la trasvolata oceanica, con in tasca quella somma si recò nella sede della Ryan Aircraft Company, a San Diego, per farsi costruire il suo aereo. Devo ammetterlo, lo Spirit of St. Louis venne disegnato e fabbricato  in tempo record. Il progetto era stato realizzato il 25 febbraio 1927 e tre mesi dopo, il 10 maggio, grazie soprattutto all’impegno del capo ingegnere della Ryan, Donald Hall, l’aereo era pronto.
Intanto Giuseppe Bellanca, aveva preparato il Columbia per vincere il premio ed aveva ingaggiato come pilota Lloyd Bertaud, un giovane pilota americano del servizio postale che aveva battuto numerosi record di durata e che durante la prima guerra mondiale era stato arruolato col grado di tenente nell’aviazione americana. Sembrava tutto a posto, anche il pilota era bravo, e dopo il record di persistenza in volo che facemmo io e Bert sopra Long Islands, aveva deciso di affidare a me il ruolo di navigatore per compiere la trasvolata. Insomma, io e Bertaud eravamo il migliore equipaggio possibile con il migliore aereo in circolazione, ma nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo di lì a poco nè immaginare che un sogno, inseguito per tanto tempo, potesse svanire improvvisamente.
Beh, quel pazzo del socio di Bellanca aveva deciso, non so come non so quando, che doveva volare lui: di conseguenza, considerato che i posti sull'aereo erano solo due tentò di annullare il contratto con Bertaud. L’eccentrico miliardario e socio di Giuseppe Bellanca, infatti, nello scegliere l'equipaggio aveva promesso un posto a due piloti: Bertaud e me E fu allora che si complicò tutto.. e il disastroso epilogo della vicenda avvenne nel maggio del 1927 quando era tutto pronto per entrare nella leggenda.
Sarà stato il desiderio di Levine di partecipare a quel volo, sarà stato il nervosismo che serpeggiava fra tutti noi, pronti a volare ma impossibilitati a farlo per il maltempo, sarà che eravamo preoccupati che qualcuno potesse accendere i motori e fregarci, il clima non era certo idilliaco e cominciarono gli attriti e le discussioni.
E una sera Levine stracciò il contratto con Bertaud ed io pensai che era tutto a posto, potevamo fare la trasvolata oceanica.
Il primo stop però avvenne il 16 maggio. Si era sparsa la voce che stessimo  per decollare, e una folla enorme, sperando di assistere al volo, si riversò al Roosevelt Field. La nebbia segnalata sull’Atlantico consigliò però di rimandare la partenza. “È probabile – scrisse il corrispondente del “Giornale di Sicilia” – che l’apparecchio del costruttore italiano compia domani un volo New York-Washington come prova definitiva circa la bontà dell’apparecchio”.
Passarono tre giorni. Il 19 maggio, mentre su New York scendeva una leggera pioggia, Lindbergh, dopo aver constatato che il maltempo si era attenuato e che le previsioni erano buone, decise di ritornare immediatamente all’aereoporto e rifornire di carburante il suo aereo. All’alba del 20 maggio si alzò in volo; il resto è storia.
Vi chiederete: Cosa impedì all’aereo di Giuseppe Bellanca di prendere il volo e battere quel record? Sia lo Spirit of St. Louis che il Columbia erano al Roosevelt Field pronti per il decollo e per volare verso Parigi. Perché l’aereo di Bellanca, che era sicuramente il più affidabile e il più veloce, non si alzò in volo?
La risposta è semplice e allo stesso tempo drammatica. Lloyd Bertaud, dopo che Levine aveva stracciato il contratto era offerto di comprare l’aereo; ma così come aveva fatto con Lindbergh, l’eccentrico miliardario americano si rifiutò di venderlo.
Per tutta risposta, sentendosi defraudato e vedendosi tolta la possibilità di essere il primo aviatore a sorvolare l’oceano, citò per danni la società. Bertaud sapeva che il Columbia era più veloce e che avrebbe vinto sicuramente la gara, ma la rottura con Levine lo aveva privato della possibilità di entrare nella storia dell’aviazione. Chiamò quindi in giudizio la Columbia Aircraft e ottenne il sequestro dell'aereo.
Così, mentre il nostro aereo, il Bellanca WB2 era sotto sequestro per ordine della Suprema Corte, il 20 maggio 1927 Lindbergh partiva per il suo storico volo in solitario da New York a Parigi; e il 16 giugno di quell’anno, a New York, riceveva il premio dalle mani di Raymond Orteig.
Ecco, questa è l’esatta ricostruzione di come si sono svolti i fatti.
Peppino Bellanca, un siciliano emigrato in America con pochi soldi e diventato il più famoso costruttore di aerei fu beffato da una disputa fra il suo socio ed un pilota delle linee postali.

Due settimane più tardi, il 4 giugno del 1927, il Columbia – ormai liberato dalle dispute legali e dopo aver cancellato dalla carlinga la scritta Paris – decollò con successo per il volo verso la Germania. In cabina con me c’era  Charles Levine, che è entrato nella storia dell’aviazione essendo stato il primo passeggero in un volo transatlantico.

Beh, Giuseppe Bellanca adesso è nella Hall of fame dell’aviazione mondiale, lui ha messo i paracadute dentro gli aerei, ha inventato la cabina pressurizzata e per la prima volta ha dotato un aereo di una radio per le comunicazioni. Insomma, se prendete un aereo oggi, tutto ciò che c’è dentro è una invenzione di un piccoletto siciliano, emigrato in America con un sogno: volare. Ma se chiedete in giro, qui in Sicilia in pochi lo conoscono, di contro, se vi capiterà di andare nel Museo dell’aviazione di Washington andate a visitare le tre grandi stanze dedicate a Bellanca.
Un grande siciliano.




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