venerdì 23 gennaio 2009

L'ATTUALITA' DEI VICERE' DI ... DE ROBERTO

di Accursio Soldano
Quando Federico De Roberto morì, a Catania, il 26 luglio del 1927, aveva la netta sensazione di essere un fallito. Era riuscito a superare brillantemente il boicottaggio degli ambienti più conservatori, ma non il giudizio del filosofo Benedetto Croce, che definì “I Vicerè” un feuiletton, un’opera farraginosa e cerebrale, tutta di intelletto e priva di sentimento. Denunciare il fallimento del Risorgimento, anche attraverso la storia di una immaginaria famiglia non era cosa facile per quei tempi: forse era questo, il maggior torto di De Roberto.
I Vicerè” fu pubblicato nell'agosto del 1894 dall’editore Galli di Milano, e sebbene oggi sia considerato il capolavoro dello scrittore siciliano, per uno strano gioco del destino, a quel tempo, fu l'inizio del suo progressivo isolamento e la “conferma” che, malgrado i suoi sforzi letterari, nessuno avrebbe inserito il suo nome fra gli scrittori italiani. Su quel romanzo lo scrittore ci aveva lavorato per ben due anni. Due anni pieni di infinite ricerche, tanto da procurargli una fatica sia mentale che fisica, che lo psichiatra svizzero Dubois, al quale De Robertò si rivolse, definì, con una diagnosi alquanto approssimativa, come «uno dei più rari casi di isterismo mascolino». In realtà, al di là della diagnosi medica, i problemi erano da ricercare nella sua sensazione di fallimento, dovuta soprattutto alle critiche negative al suo romanzo. E pensare che Luigi Capuana stesso, il 5 ottobre del 1894 scrivendo all'amico ebbe a dire “Dall’Illusione ai Vicerè hai fatto non un salto, ma una volata lunga, meravigliosa.”
Ma non bastava il giudizio positivo del suo conterraneo Capuana. In una lettera all'amico Mario Puccini, De Roberto scriveva che “Nessuno sa meglio di me quanto poco ho fatto e quanto è giustificato il silenzio che mi circonda per ora e quello, più grande, che avvolgerà il mio nome. I sogni, sì, erano vasti e belli, ma ne tradussi, troppo male, troppa poca parte”. Una vera e propria dichiarazione di fallimento. Sia personale che come scrittore. Il risultato fu un progressivo isolamento da tutto e da tutti.
E pensare che oggi, quel romanzo, in cui le vicende del risorgimento meridionale sono narrate attraverso la storia della famiglia nobile degli Uzeda, è considerato uno dei capolavori del 900.
In realtà, nel progetto originale, quella degli Uzeda, questa immaginaria famiglia discendente dagli antichi Viceré di Sicilia, doveva essere una trilogia, ma De Roberto riuscì a completare solo i primi due volumi. “L'illusione” pubblicato nel 1891, è basato sul personaggio della ricca nobildonna Teresa Uzeda, che, dopo aver lasciato il marito e il figlio per inseguire i suoi sogni d’amore, scopre le illusioni della vita, “I Viceré”, che si chiudeva con l’elezione al Parlamento di Consalvo Uzeda nel 1882, e infine “L'imperio” che avrebbe raccontato la storia parlamentare di Consalvo e la sua vita a Roma, a partire dal 22 novembre 1882, giorno di inizio della XIV legislatura. Ma la freddezza e i giudizi negativi con il quale fu accolto il secondo capitolo della trilogia, e i pochi giudizi positivi alla sua precedente attività letteraria, fecero sì che De Roberto non completasse il terzo capitolo. Che sarà pubblicato postumo nel 1929 da Mondadori. Sebbene ci abbia provato.
Lo scrittore infatti, abbandonò il progetto dell'Imperio nel 1894 dopo aver scritto i primi cinque capitoli, e lo riprese nel 1908, quando si trasferì a Roma per frequentare gli ambienti parlamentari e giornalistici. In quell'anno, il giorno di Natale comunicò alla madre che “Ieri, vigilia di Natale, ho scritto la prima pagina del romanzo. Andrò avanti? Chi ne sa niente!”. Il trasferimento nella capitale era, si può dire, un atto dovuto. De Roberto aveva bisogno di toccare con mano quello che riportava nel suo romanzo, “Sono stato e starò ancora un pezzo alle calcagna di un redattore politico del Giornale d’Italia seguendolo per i ministeri, alla Camera e al Senato, perché il personaggio del mio libro si deve occupare di queste cose”. Ma alla fine, il romanzo non fu completato.
Ma a cosa erano dovuti quei giudizi negativi ai primi due libri della trilogia degli Uzeda, tanto da condizionarne la produzione letteraria, e al punto da attirarsi la critica negativa del filosofoBenedetto Croce? Una delle cause è da ricercare nella non-scelta della scrittura.
Salta subito agli occhi che, mentre nel primo romanzo la protagonista, presumibilmente ispirata dal romanzo “Madame Bovary” di Flaubert, si allontana dalla morale pubblica per compiere una sorta di percorso formativo al contrario, gli altri due romanzi della trilogia hanno un impianto scenico corale, nel quale è vero, spicca come attore protagonista il principe Consalvo, che, per reagire al declino della sua casata, decide di darsi alla politica.
Il primo romanzo è, come lo definì lo stesso scrittore siciliano “un monologo di 450 pagine” dove sia la narrazione che il linguaggio sono prevedibili. Teresa Uzeda, la protagonista, è una donna superficiale, testarda e capricciosa la cui cultura è fondata sulle favole della vecchia nutrice, sul melodramma e sulla cattiva letteratura. Far parlare una simile donna significa riempire il libro di stereotipi e di banalità: cosa che De Roberto fa!
E allora, per certi versi, non si può dare torto a Croce quando dichiara che “pare, come se tutte le donne e gli uomini dei racconti di questa sorta di passioni e avventure amorose, siano convenute nel romanzo a ripetere stancamente le parti da loro innumerevoli volte recitate”
De Roberto era convinto che l’osservazione realistica fosse possibile solo nel dialogo, e che l’indagine della sfera psicologica, invece, coincidesse con l’auto-osservazione dello scrittore, riflesso nei personaggi come in un gioco di specchi. Questa specie di doppio binario creativo mischiava un linguaggio e un modo narrativo, che era allo stesso tempo di stampo verista e psicologistica .
Un punto d'unione fra Verga e Bourget.
Ne “I vicerè” De Roberto segue gli Uzeda, li spia, nel descriverli li rappresenta avari, feroci, smaniosi di primeggiare fino al grottesco. Ma non c’è più, come nel primo libro un singolo personaggio, una prospettiva ristretta del mondo, stavolta è il narratore che si sposta sulla scena, come il regista di una piece teatrale, da un personaggio all’altro, da un punto all’altro dello spazio e del tempo.
Amico di Giovanni Verga e sostenitore della poetica verista, De Roberto applica rigorosamente i dettami linguistici del verismo, portandoli però alle estreme conseguenze. Ne risulta, come ovvio, una totale impersonalità del narratore e una precisa osservazione dei fatti. E, nonostante le dichiarazioni in senso contrario, subisce l’influenza dello psicologismo di Paul Bourget che lo scrittore conobbe di persona e frequentò in Sicilia.
Proveniente da una nobile famiglia catanese, Federico De Roberto nacque a Napoli il 16 gennaio 1861, ed alla sua prima formazione scientifica affiancò l'interesse per gli studi classici.
Giornalista e scrittore, Federico De Roberto iniziò a scrivere per “L'illustrazione italiana” descrivendo la traslazione delle ceneri di Vincenzo Bellini nella cattedrale di Catania. Poi collaborò con importanti riviste e quotidiani. Da “Il Don Chisciotte”, di cui fu direttore dal 1881 al 1883, a “Il Fanfulla della Domenica”, nel quale si firmava con lo pseudonimo di Hamlet, fino a La Domenica Letteraria, Il Giornale di Sicilia, Il Giornale d'Italia e Il Corriere della Sera.
Oggi si discute dei Vicerè come uno dei capolavori del verismo, con tutta la sua piena attualità.
“E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!”

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