venerdì 23 gennaio 2009

UN LIBRO SULLA STORIA DI GIUSEPPE BELLANCA

di Accursio Soldano
La vita di Giuseppe Bellanca, il siciliano che è entrato nella storia dell’aviazione mondiale, è fatta di grandi conquiste e di una grande delusione: non aver fornito a Lindberg il suo monoplano per la trasvolata in solitario da New York a Parigi, ma quando Clarence Chamberlin e Charles Levine con il loro “Miss Columbia” atterrarono a Eisbleden in Sassonia, a 170 chilometri da Berlino, alle 6,30 del 7 giugno 1927, dopo aver percorso, in 44 ore, quasi 6000 km. Chamberlin aveva battuto di ben 700 km il record di Lindberg (atterrato col suo Spirit of Saint Louis a Parigi). L’aeroplano sul quale viaggiavano i due aviatori, battezzato “Miss Columbia” era partito da New York alle 6 e 5 minuti (ora americana) del 4 giugno, e oltre al record di distanza, era il primo velivolo con passeggero a bordo.
Il “Miss Columbia”, entrato nella storia dell’Aviazione, era stato ideato e disegnato da un giovane ingegnere siciliano emigrato in America: Giuseppe Mario Bellanca.
Il volo, in realtà, doveva concludersi a Berlino, ma a causa del maltempo e per la fitta nebbia, i due piloti atterrano a Eisleben. La meta fu raggiunta il giorno 8, dopo un atterraggio a Klinge, in Prussia, dovuto ad un errore di rotta.
L’aeroplano ideato da Giuseppe Bellanca aveva un peso totale di quasi 2500 kg inclusi 1920 litri di benzina e 90 di olio, poteva viaggiare ad una velocità di 180 km/ora ed era munito di un motore Wright Whirlwind da 400 cavalli, raffreddato ad aria.
Una versione meno potente del “Columbia”, il Wright-Bellanca-2 equipaggiato di un motore di 200 cavalli, aveva già conquistato con Acosta e Chamberlin, il record di durata, volando per 51 ore 11 minuti e 25 secondi consecutive. E fu proprio con la conquista di questo record che il velivolo, dapprima chiamato col nome suggestivo di «Mistero», si impose all’attenzione di tutti, tanto che lo stesso Lindberg lo aveva scelto per la sua trasvolata oceanica da New York a Parigi.
Non se ne fece niente perché il socio di Bellanca non era convinto che Lindberg potesse riuscire nell’impresa di trasvolare l’Oceano.
Ma chi era questo ingegnere siciliano che aveva rivoluzionato il modo di volare e aperto all’aviazione la possibilità di nuovi orizzonti?
Giuseppe Mario Bellanca nacque nel 1886 a Sciacca. Da giovane frequentò l’Istituto Tecnico di Milano, laureandosi nel 1908 in matematica. Durante i suoi studi per la seconda laurea in ingegneria aeronautica decide di disegnare e costruire il suo primo aereo. Il primo disegno di Bellanca era un “pusher”, ma non avendo i fondi disponibili per la costruzione si associò con Enea Bossi e Paolo Invernizzi. L’unione dei tre produsse, all’inizio di dicembre del 1909, il primo volo di un aereo totalmente italiano (come disegno e costruzione). Il volo fu breve, ma fu l’inizio di un’epoca!
Il secondo aereo progettato da Bellanca, però, sebbene fosse stato costruito con successo, non volò mai perché non si trovarono i fondi sufficienti per comprare il motore.
Su pressioni di suo fratello Carlo che si era già stabilito a Brooklyn, nel 1911, a 25 anni, Giuseppe Bellanca decise di emigrare in America, e spinto dalla sua passione per il volo, prima della fine dell’anno cominciò a costruire il suo terzo aeroplano con il quale, dopo aver imparato a volare, per guadagnarsi da vivere decise di aprire una Scuola di volo. Uno dei suoi studenti era il giovane Fiorello La Guardia, futuro sindaco di New York City. In cambio delle lezioni di volo, La Guardia insegnò a Bellanca a guidare un’automobile.
Ma la scuola di volo non gli bastava, lui voleva disegnare e costruire aerei. L’occasione gli venne offerta da alcune società americane che lo ingaggiarono come consulente, e poi come progettista per gli aeroplani che montavano i motori Wright.
E fu proprio alla “Wright Aeronautical Corp.” che Bellanca rivoluziona il modo di volare. In controtendenza alla dominante formula biplana, disegna il primo di una serie di monoplani ad ala alta controventata e cabina chiusa. Ed è subito successo: il “Model CF” (poi migliorato e ribattezzato WB-1) vince tredici gare su tredici. Il WB-1 però ebbe vita breve. Il velivolo aveva già vinto una corsa e una competizione di efficienza, ma un incidente distrusse l’aereo durante la preparazione per un tentativo di battere il record mondiale di volo di durata senza rifornimento. Fortunatamente, Bellanca stava già lavorando su una versione migliorata che battezzò con semplice nome di WB-2.
Ma la grande avventura, quella che farà di Bellanca uno dei pionieri della storia dell’aviazione inizia nel 1926.
In quell’anno, il Wright-Bellanca-2 aveva vinto due gare di efficienza al National Air Races di Filadelfia e visto il successo, si pensava di mettere l’aereo in produzione, ma Wright per evitare di respingere altre compagnie aeree che erano potenziali acquirenti dei motori, decise di non dare seguito al progetto. Deluso da questa decisione Bellanca lasciò la Compagnia e si mise in società con un giovane uomo d’affari americano, Charles Levine creando la “Columbia Aircraft company”. L’unione con Levine è caratterizzata da grandi imprese e da grandi delusioni. Fu proprio lui, che nel 1926 respinse la richiesta di Charles Lindbergh di comprare il WB-2, per il volo da New York a Parigi.
Il velivolo, ribattezzato “Miss Columbia” si prese la rivincita pochi giorni dopo, attraversando l’Atlantico e Parigi e stabilendo il nuovo primato di distanza. Partito da New York, sorvolò Princetown, Harbour, Halifax, Terranova, Capo Race, Plymouth, Gand, Crefeld, Dortmund, Cassel e atterrò a Eisleden.
Malgrado il successo dell’impresa, che aveva portato due uomini al di là dell’Oceano, e ad una distanza superiore a quella di Lindgerg, dispiaciuto dal fatto che il Columbia non era stato il primo aereo a compiere la trasvolata oceanica, Bellanca troncò tutti i rapporti con Levine e creò la sua propria compagnia, la “Bellanca Aircraft Corporation of America”.
Con essa omologa il “Bellanca CH200”, monoplano a sei posti per trasporto passeggeri e con la versione successiva, il “CH300” del 1929, migliorata e rimotorizzata registra i primi, corposi ordini d'acquisto: 35 esemplari per varie compagnie di trasporto. Ormai, gli aerei costruiti da Giuseppe Bellanca sono richiesti e usati in tutta L’America.
Ma Bellanca non è contento e continua la sua ricerca per migliorare i suoi aerei. Tra il 1929 e il 1939 la Bellanca Corp. concepisce una serie incredibile di velivoli di successo: il “PM300 Freighter”, primo velivolo della storia a trasportare un carico pagante superiore al proprio peso e lo stesso PM 300 dotato di un motore Packard Diesel stabilisce il primato di durata senza scalo e rifornimenti in 84 ore e 33 minuti, mentre il “Model E Senior Pacemaker” avrà in dotazione i paracadute installati sotto i sedili, proprio come ancora oggi, in tutti gli aerei. Nel 1936 il “Model 28-70” compie la traversata da primato New York-Croydon in 17 ore e 13 min. e frutterà ordini per velivoli che parteciperanno alla Istres-Damasco-Parigi del 1937.
Ed è proprio con un monoplano disegnato da Bellanca e battezzato “Leonardo Da Vinci” che l'aviatore Cesare Sabelli varcherà l'oceano, diventando così il primo aviatore italiano a compiere la trasvolata.
All'inizio del secondo conflitto mondiale Bellanca varierà i progetti dei suoi aerei, realizzando addestratori militari come il “14-7” e il “14-9”, un triposto a doppio comando con posti affiancati anteriori e, subito dopo la seconda guerra mondiale crea il “14-19 Cruisemaster” che nel 1959 subirà la fortunata metamorfosi nel “Bellanca Viking”, monoplano che ancora oggi solca i cieli.
Giuseppe Bellanca, ammalatosi di Leucemia, morirà a NewYork nel 1960, ma la storia degli aerei disegnati e costruiti da questo giovane ingegnere sciacchitano, che a 25 anni emigrò in America in cerca di fortuna e di soldi per poter costruire i suoi monoplani, continua con la produzione odierna dei modelli Decathlon e Scout.
Nel 1993 suo figlio, August Bellanca ha donato i documenti professionali e personali di suo padre all’Archivio del Museo Nazionale dell’ Aria e dello Spazio di Washington (National Air and Space Museum), dove ogni anno, migliaia di visitatori rendono omaggio a questo piccolo uomo sciacchitano che, partito dalla Sicilia senza i soldi per poter comprare il motore del suo aereo, è diventato uno dei pionieri nella storia dell’aviazione.

In preparazione un libro che racconta la storia di Giuseppe Bellanca, e dei piloti che, con i suoi aerei, batterono tutti i record mondiali. Il libro contiene anche articoli e foto dell'epoca d'oro dell'aviazione mondiale.

L'ATTUALITA' DEI VICERE' DI ... DE ROBERTO

di Accursio Soldano
Quando Federico De Roberto morì, a Catania, il 26 luglio del 1927, aveva la netta sensazione di essere un fallito. Era riuscito a superare brillantemente il boicottaggio degli ambienti più conservatori, ma non il giudizio del filosofo Benedetto Croce, che definì “I Vicerè” un feuiletton, un’opera farraginosa e cerebrale, tutta di intelletto e priva di sentimento. Denunciare il fallimento del Risorgimento, anche attraverso la storia di una immaginaria famiglia non era cosa facile per quei tempi: forse era questo, il maggior torto di De Roberto.
I Vicerè” fu pubblicato nell'agosto del 1894 dall’editore Galli di Milano, e sebbene oggi sia considerato il capolavoro dello scrittore siciliano, per uno strano gioco del destino, a quel tempo, fu l'inizio del suo progressivo isolamento e la “conferma” che, malgrado i suoi sforzi letterari, nessuno avrebbe inserito il suo nome fra gli scrittori italiani. Su quel romanzo lo scrittore ci aveva lavorato per ben due anni. Due anni pieni di infinite ricerche, tanto da procurargli una fatica sia mentale che fisica, che lo psichiatra svizzero Dubois, al quale De Robertò si rivolse, definì, con una diagnosi alquanto approssimativa, come «uno dei più rari casi di isterismo mascolino». In realtà, al di là della diagnosi medica, i problemi erano da ricercare nella sua sensazione di fallimento, dovuta soprattutto alle critiche negative al suo romanzo. E pensare che Luigi Capuana stesso, il 5 ottobre del 1894 scrivendo all'amico ebbe a dire “Dall’Illusione ai Vicerè hai fatto non un salto, ma una volata lunga, meravigliosa.”
Ma non bastava il giudizio positivo del suo conterraneo Capuana. In una lettera all'amico Mario Puccini, De Roberto scriveva che “Nessuno sa meglio di me quanto poco ho fatto e quanto è giustificato il silenzio che mi circonda per ora e quello, più grande, che avvolgerà il mio nome. I sogni, sì, erano vasti e belli, ma ne tradussi, troppo male, troppa poca parte”. Una vera e propria dichiarazione di fallimento. Sia personale che come scrittore. Il risultato fu un progressivo isolamento da tutto e da tutti.
E pensare che oggi, quel romanzo, in cui le vicende del risorgimento meridionale sono narrate attraverso la storia della famiglia nobile degli Uzeda, è considerato uno dei capolavori del 900.
In realtà, nel progetto originale, quella degli Uzeda, questa immaginaria famiglia discendente dagli antichi Viceré di Sicilia, doveva essere una trilogia, ma De Roberto riuscì a completare solo i primi due volumi. “L'illusione” pubblicato nel 1891, è basato sul personaggio della ricca nobildonna Teresa Uzeda, che, dopo aver lasciato il marito e il figlio per inseguire i suoi sogni d’amore, scopre le illusioni della vita, “I Viceré”, che si chiudeva con l’elezione al Parlamento di Consalvo Uzeda nel 1882, e infine “L'imperio” che avrebbe raccontato la storia parlamentare di Consalvo e la sua vita a Roma, a partire dal 22 novembre 1882, giorno di inizio della XIV legislatura. Ma la freddezza e i giudizi negativi con il quale fu accolto il secondo capitolo della trilogia, e i pochi giudizi positivi alla sua precedente attività letteraria, fecero sì che De Roberto non completasse il terzo capitolo. Che sarà pubblicato postumo nel 1929 da Mondadori. Sebbene ci abbia provato.
Lo scrittore infatti, abbandonò il progetto dell'Imperio nel 1894 dopo aver scritto i primi cinque capitoli, e lo riprese nel 1908, quando si trasferì a Roma per frequentare gli ambienti parlamentari e giornalistici. In quell'anno, il giorno di Natale comunicò alla madre che “Ieri, vigilia di Natale, ho scritto la prima pagina del romanzo. Andrò avanti? Chi ne sa niente!”. Il trasferimento nella capitale era, si può dire, un atto dovuto. De Roberto aveva bisogno di toccare con mano quello che riportava nel suo romanzo, “Sono stato e starò ancora un pezzo alle calcagna di un redattore politico del Giornale d’Italia seguendolo per i ministeri, alla Camera e al Senato, perché il personaggio del mio libro si deve occupare di queste cose”. Ma alla fine, il romanzo non fu completato.
Ma a cosa erano dovuti quei giudizi negativi ai primi due libri della trilogia degli Uzeda, tanto da condizionarne la produzione letteraria, e al punto da attirarsi la critica negativa del filosofoBenedetto Croce? Una delle cause è da ricercare nella non-scelta della scrittura.
Salta subito agli occhi che, mentre nel primo romanzo la protagonista, presumibilmente ispirata dal romanzo “Madame Bovary” di Flaubert, si allontana dalla morale pubblica per compiere una sorta di percorso formativo al contrario, gli altri due romanzi della trilogia hanno un impianto scenico corale, nel quale è vero, spicca come attore protagonista il principe Consalvo, che, per reagire al declino della sua casata, decide di darsi alla politica.
Il primo romanzo è, come lo definì lo stesso scrittore siciliano “un monologo di 450 pagine” dove sia la narrazione che il linguaggio sono prevedibili. Teresa Uzeda, la protagonista, è una donna superficiale, testarda e capricciosa la cui cultura è fondata sulle favole della vecchia nutrice, sul melodramma e sulla cattiva letteratura. Far parlare una simile donna significa riempire il libro di stereotipi e di banalità: cosa che De Roberto fa!
E allora, per certi versi, non si può dare torto a Croce quando dichiara che “pare, come se tutte le donne e gli uomini dei racconti di questa sorta di passioni e avventure amorose, siano convenute nel romanzo a ripetere stancamente le parti da loro innumerevoli volte recitate”
De Roberto era convinto che l’osservazione realistica fosse possibile solo nel dialogo, e che l’indagine della sfera psicologica, invece, coincidesse con l’auto-osservazione dello scrittore, riflesso nei personaggi come in un gioco di specchi. Questa specie di doppio binario creativo mischiava un linguaggio e un modo narrativo, che era allo stesso tempo di stampo verista e psicologistica .
Un punto d'unione fra Verga e Bourget.
Ne “I vicerè” De Roberto segue gli Uzeda, li spia, nel descriverli li rappresenta avari, feroci, smaniosi di primeggiare fino al grottesco. Ma non c’è più, come nel primo libro un singolo personaggio, una prospettiva ristretta del mondo, stavolta è il narratore che si sposta sulla scena, come il regista di una piece teatrale, da un personaggio all’altro, da un punto all’altro dello spazio e del tempo.
Amico di Giovanni Verga e sostenitore della poetica verista, De Roberto applica rigorosamente i dettami linguistici del verismo, portandoli però alle estreme conseguenze. Ne risulta, come ovvio, una totale impersonalità del narratore e una precisa osservazione dei fatti. E, nonostante le dichiarazioni in senso contrario, subisce l’influenza dello psicologismo di Paul Bourget che lo scrittore conobbe di persona e frequentò in Sicilia.
Proveniente da una nobile famiglia catanese, Federico De Roberto nacque a Napoli il 16 gennaio 1861, ed alla sua prima formazione scientifica affiancò l'interesse per gli studi classici.
Giornalista e scrittore, Federico De Roberto iniziò a scrivere per “L'illustrazione italiana” descrivendo la traslazione delle ceneri di Vincenzo Bellini nella cattedrale di Catania. Poi collaborò con importanti riviste e quotidiani. Da “Il Don Chisciotte”, di cui fu direttore dal 1881 al 1883, a “Il Fanfulla della Domenica”, nel quale si firmava con lo pseudonimo di Hamlet, fino a La Domenica Letteraria, Il Giornale di Sicilia, Il Giornale d'Italia e Il Corriere della Sera.
Oggi si discute dei Vicerè come uno dei capolavori del verismo, con tutta la sua piena attualità.
“E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!”

IO E MISTER PINK

di Accursio Soldano
Steve Buscemi, il paranoico mister pink del film “Le iene” di Tarantino, ha compiuto 50 anni.
Il mister pink di “Le iene”, che discuteva animatamente sulla scelta del soprannome da usare per la rapina in banca nel film di Tarantino, l’ho incontrato durante un suo viaggio in Sicilia, e precisamente a Menfi, alla ricerca delle proprie origini. D'altronde il cognome non lascia dubbi sulle sue origini italiane, ma ci tiene a precisare che in realtà, malgrado la discussione animata con Mister black, a lui il colore viola piace.
Il suo bisnonno Giuseppe Buscemi, nel 1909 all'età di otto anni, così come tanti siciliani, partì da Menfi con una valigia piena di speranze e una targhetta con il suo nome appiccicata al petto. Anche lui in cerca di fortuna in America. Si stabilì a Brooklyn, dove nacquero i suoi figli.
Adesso il popolare attore americano ha deciso di venire in Sicilia e visitare quei posti immaginati nei tanti racconti del nonno, ma che né lui né suo padre avevamo mai visto. Un ritorno alle origini, dopo quattro generazioni, per respirare l'aria di famiglia.
Ed ha incontrato i suoi cugini.
Steve Buscemi è cresciuto a Long Island, e fino al 1986, non pensava di diventare uno degli attori preferiti di Quentin Tarantino e dei fratelli Coen (quelli di "Non è un paese per vecchi"): faceva il pompiere. La svolta arriva quando si trasferisce nell'East Village per frequentare i corsi di recitazione del Lee Strasberg Institute. Ed è lì, che nel 1986 viene scelto da Bill Sherwood per interpretare Nick, cantante rock malato di Aids, nel film Parting Glances. È l'inizio di una carriera di attore che lo vedrà impegnato con registi del calibro di Jim Jarmusch e dei fratelli Coen, con i quali ha lavorato in “Barton Fink”, poi nel ruolo del barista beat in “Mister Hula Hoop" e ancora nel bellissmo “Il grande Lebowski”.
Ma il ruolo che lo renderà famoso al grande pubblico, sarà il “Mister pink” nel film "Le iene" di Quentin Tarantino, per il quale ha vinto il premio della IFP Spirit Awards
Steve è una persona semplice, a parlare con lui non hai proprio l’impressione di parlare con un divo del cinema… chissà… magari fra divi ci capiamo!

L'AEROPORTO FANTASMA DI SCIACCA

di Accursio Soldano
Gli aerei inglesi e quelli degli americani avevano sorvolato tante volte quella zona della Sicilia, ma sotto di loro solo campagna, montagne brulle, pascoli ed uliveti. Per ben tre anni nessuno era riuscito a capire da dove arrivassero quegli aerei italiani che, come se fossero sbucati dalle nuvole bombardavano Malta, sfiancavano la resistenza anglo-francese e soprattutto, come facessero a sparire nel nulla.
Quel giorno, gli avieri delle forze alleate che stavano preparando lo sbarco in Sicilia ebbero un ordine ben preciso. L'aeroporto fantasma, quello che per ben tre anni era sfuggito a qualsiasi incursione aerea, si trovava a latitudine 37° 34' 370'' Nord e longitudine 13° 04' 006'' est. Praticamente c’erano passati sopra tante volte e non l’avevano mai visto. Oggi si doveva distruggere.
L’aeroporto militare di Sciacca nacque nel 1939 con un progetto agricolo che, sulla carta, doveva migliorare le condizione del terreno. Tutta la zona pianeggiante di contrada “Piana” fu coltivata ad ulivi posizionati ad una distanza, l’uno dall’altro, non congeniale per quei tempi. In verità, la distanza fra un ulivo e l’altro era calcolata in base alla larghezza degli aerei.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale però, la Regia Aeronautica era ancora in fase di riorganizzazione e la dichiarazione di guerra colse quasi di sorpresa la nostra aviazione.
Le difficoltà si presentarono subito. Eventuali risultati positivi della nostra aviazione erano condizionati oltre che dallo scarto tecnologico nei confronti degli anglo-francesi e in seguito degli americani, anche dall'insufficienza delle risorse, dalle distanze delle fonti di rifornimento, e dalla durata della stessa guerra.
Si cercò allora di creare in fretta nuovi punti di appoggio per gli stormi aerei che dovevano presidiare il canale di Sicilia con compiti offensivi o difensivi. E niente di meglio che, per questo scopo, usare l’aeroporto di Sciacca.
Nelle zone pianeggianti coltivate a prato furono costruite delle piste. Mantenendo intatta tutta la coltivazione di uliveti e di pascoli, pista, hangar ed aerei erano perfettamente mimetizzati in mezzo ad un folto uliveto, gli aerei a terra e le attrezzature erano sempre ricoperti da grandi rami di ulivo e dall'alto, i ricognitori angloamericani non riuscivano a vedere assolutamente nulla. Tutte le case dei contadini vennero requisite, prima, dal Comando Italiano, e nel 1941, dal comando Tedesco per adibirli ad alloggi per gli avieri e per gli ufficiali.
Alla base aerea operavano il trentesimo stormo bombardamento marittimo, dotato di veivoli SM 79, che effettuava missioni di ricognizione offensiva e di scorta a convogli nazionali, il centoduesimo gruppo avieri che si distinse per le azioni di guerra su Malta, tanto che lo stesso Benito Mussolini, il 24 giugno 1942 venne a Sciacca per decorare gli equipaggi e il decimo stormo.
La posizione strategica di questa base militare e la perfetta mimetizzazione ne avevano fatto un punto di riferimento delle forze aeree impegnate in missioni in Nord'Africa, specialmente per i bombardamenti su Malta, distante ben 141 miglia.
Nacque così l'aeroporto di Sciacca che per le sue caratteristiche, sarà soprannominato “l'aeroporto fantasma”. Nel Mediterraneo, partendo da Sciacca, gli aerei italiani potevano contrastare con successo l'azione della flotta inglese. Malta venne continuamente martellata e ridotta allo stremo dopo che la flotta inglese, per ben nove mesi, non riuscì a forzare il blocco italo-tedesco nel Mediterraneo.
La Base rimase nascosta e mimetizzata per ben 3 anni, dal 1940 al 1943, sfuggendo alle incursioni aeree dei nemici che sorvolavano e bombardavano gli altri aeroporti siciliani.
Ma il 21 maggio 1943, dalle 10 alle 10.30 del mattino il tanto temuto bombardamento da parte degli alleati anglo-americani prese tutti alla sprovvista. Seguendo la rotta, tante volte provata, Malta-Calamonaci-San Calogero-Nadore, gli aerei delle forze alleate arrivano sull'aeroporto di Sciacca e cominciano a sganciare bombe. La sorpresa fu così tanta, che la contraerea, sistemata nella zona del Nadore, non riuscì neanche a sparare un colpo.
A terra, una tragedia. Tanti morti e decine di feriti. Era il 21 maggio, due mesi dopo, il 19 luglio, gli alleati sbarcarono a Gela e dell’aeroporto fantasma non c’era che case distrutte e pezzi di aerei sul terreno. In mezzo agli ulivi.