MI CHIAMO
CLARENCE CHAMBERLIN
Monologo
Liberamente tratto da "Giuseppe Mario Bellanca e i pionieri sulle macchine volanti"
di Accursio
Soldano
Quella settimana, al Roosevelt Field di New
York in attesa di prendere il volo per Parigi c'erano tre piloti. Charles
Lindbergh, un giovane pilota postale che si era presentato con un aereo
costruito dalle industrie Ryan e che aveva battezzato Spirit of St. Louis, il
comandante Richard Byrd, che aveva scelto il mio amico Bert Acosta come pilota
ed io, con il Miss Columbia, l’aereo costruito da un ingegnere siciliano di
nome Giuseppe Bellanca, un uomo che ha passato la sua vita in compagnia di un
rimpianto: non aver venduto a Lindbergh il suo monoplano per la mitica
trasvolata in solitario New York-Parigi. La prima della storia.
La
vita in seguito gli avrebbe avrebbe dato tante soddisfazioni ma nulla ha potuto
colmare il vuoto di quell'appuntamento mancato con la leggenda. Ma voglio
raccontarvi, affinché tutti voi conosciate la verità, come si sono svolti i
fatti.
Io
come vi dicevo mi chiamo Clarence Chamberlin ed ho cominciato a volare con gli
aeroplani costruiti da Peppino Bellanca nel 1919 e sapevo benissimo, così come
lo sapevano tutti, che un suo aereo poteva fare la trasvolata oceanica, perché
gli aerei costruiti da Giuseppe Bellanca erano affidabili, veloci e sicuri. Avremmo
seguito la rotta dei piroscafi. Avevamo salvagente, pistole, bombe fumogene per
segnalazioni. Il grosso serbatoio di carburante che si trovava nella cabina
poteva essere svuotato rapidamente e utilizzato per far galleggiare
l’apparecchio, beninteso se questo non si fosse capovolto, ma eravamo fiduciosi.
Il
mio aereo, il “Columbia”, aveva un peso totale di quasi 2.500 chilogrammi
inclusi 1.920 litri di benzina e 90 di olio, poteva viaggiare ad una velocità
di 180 chilometri orari ed era munito di un motore Wright Whirlwind da 400
cavalli, raffreddato ad aria. Era il migliore in circolazione e ce la poteva
fare, doveva essere il primo aereo ad atterrare a Parigi, ma così non fu.
Volete sapere perché sono così sicuro che avremmo vinto noi?
Beh, cinque giorni prima, un martedi se non
ricordo male, si, martedì 12 Aprile 1927 io e Bert siamo decollati dal
Roosevelt Field alle 9 e 30 del mattino con 375 galloni di carburante e qualche
piccolo accorgimento nella cabina. Il piano era molto semplice, Bellanca ci
aveva chiesto di volare avanti e
indietro sopra Long Island fino a quando la benzina non fosse finita, non tanto
da schiantarci al suolo, ma fino a quando nel serbatoio fosse rimasta quella
necessaria per atterrare.
Voleva
sapere quante ore il suo aereo poteva stare in volo.
Beh,
io e Bert abbiamo volato per due giorni. Avanti e indietro, sopra e sotto Long
Island, sopra i grattacieli che ormai li conoscevamo a memoria. Vi potrei
persino dire chi ci abita. Quando siamo tornati a terra erano passate 51 ore,
11 minuti e 25 secondi e fummo accolti da un gran sorriso di Giuseppe.
Lui
sapeva che per arrivare a Parigi, volando in quel modo, ci sarebbero volute 45
ore, cavolo, noi avevamo volato per 51 ore, altro che Parigi, potevamo arrivare
fino a Vienna senza problemi.
Come
dicevo, quella settimana al Roosevelt field avevamo un appuntamento con la
storia, dovevamo essere i primi a volare dall’america in europa senza fare
nessun scalo, senza fermarci da nessuna parte a rifornirci, dovevamo aprire una
nuova via.
Perché
eravamo lì?
Tutto
era cominciato sette anni prima, nel 1919, quando Raymond Orteig il
proprietario del lussuoso Hotel Lafayette di New York decise di offrire un
premio di 25.000 dollari al primo aviatore che avrebbe attraversato
l'Atlantico, da New York a Parigi. O da Parigi o New York, non importava, quel
che interessava era che fosse un volo non-stop.
Cosa
da pazzi, una cosa impensabile.
All’iniziativa
si associò il giornale francese “Paris Temps”. Il premio messo in palio da
Raymond Orteig e i 10.000 franchi offerti dal giornale francese, in realtà
erano poca cosa. Quella somma non sarebbe bastata neppure a pagare gli
interessi sugli investimenti totali. Erano piuttosto la fama, il cinema, gli
articoli sui giornali e soprattutto l'avventura e la gloria il vero motore di
chi avesse voluto tentare la traversata.
Da
quel momento, il Roosevelt Field divenne la sede centrale di molti aviatori che
volevano tentare l'impresa. Oltretutto a quel tempo le continue innovazioni in
campo aeronautico facevano supporre che quella traversata fosse possibile. Ma
non era esattamente così. Parecchi piloti dell'epoca infatti ci provarono, ma
nessuno riuscì a raggiungere le meta e molti persero la vita.
Oltre
a noi, voglio dire, io e Bert che avevamo già volato su un aereo di Bellanca, c’era
anche un giovane pilota delle linee aeree postali di Saint Louis, di nome
Charles Lindbergh che... Ok, vi racconto come il destino può essere beffardo.
Dopo
il nostro giro su Long Islands tutti i giornali americani parlavano delle
prestazioni degli aerei disegnati da Giuseppe, al punto che Lindbergh stesso
dichiarò “Se posso avere un Bellanca, volerò da solo”.
Lindbergh quindi si recò alla
fabbrica di Bellanca per comprare un suo aeroplano e devo dire che trovò peppino
disponibile alla vendita. Ma non il suo socio, Charles Levine.
Charles Levine era un
industriale di Brooklyn che cominciò la sua ascesa nel mondo degli affari
vendendo automobili di seconda mano. Fece milioni di dollari dopo la guerra e
il suo fiuto per gli affari lo avvicinarono al mondo dell'aviazione. Con
Bellanca creò la "Columbia Aircraft Corporation" mettendo a disposizione
dell'ingegnere siciliano un capitale iniziale di 50.000 dollari con i quali
Giuseppe riprese il suo vecchio progetto del WB2, costruì l’aereo e lo battezzò
"Columbia".
Insomma,
in un primo momento Levine tentò di alzare il prezzo chiedendo ben 15.000
dollari per vendere l’aereo, convinto che quel pilota non avrebbe mai trovato
quella cifra; ma quando Lindbergh tornò nella sede della società con il denaro
in mano e pronto all’acquisto, Levine rispose che gli avrebbe venduto
l'aeroplano, ma si riservava il diritto di scegliere l'equipaggio.
A
quel punto Lindbergh, non potendo disporre del WB2 e tuttavia intenzionato a
tentare la trasvolata oceanica, con in tasca quella somma si recò nella sede
della Ryan Aircraft Company, a San Diego, per farsi costruire il suo aereo.
Devo ammetterlo, lo Spirit of St. Louis venne disegnato e fabbricato in tempo record. Il progetto era stato
realizzato il 25 febbraio 1927 e tre mesi dopo, il 10 maggio, grazie
soprattutto all’impegno del capo ingegnere della Ryan, Donald Hall, l’aereo era
pronto.
Intanto
Giuseppe Bellanca, aveva preparato il Columbia per vincere il premio ed aveva
ingaggiato come pilota Lloyd Bertaud, un giovane pilota americano del servizio
postale che aveva battuto numerosi record di durata e che durante la prima
guerra mondiale era stato arruolato col grado di tenente nell’aviazione
americana. Sembrava tutto a posto, anche il pilota era bravo, e dopo il record
di persistenza in volo che facemmo io e Bert sopra Long Islands, aveva deciso
di affidare a me il ruolo di navigatore per compiere la trasvolata. Insomma, io
e Bertaud eravamo il migliore equipaggio possibile con il migliore aereo in
circolazione, ma nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo di lì a poco nè
immaginare che un sogno, inseguito per tanto tempo, potesse svanire
improvvisamente.
Beh,
quel pazzo del socio di Bellanca aveva deciso, non so come non so quando, che
doveva volare lui: di conseguenza, considerato che i posti sull'aereo erano
solo due tentò di annullare il contratto con Bertaud. L’eccentrico miliardario
e socio di Giuseppe Bellanca, infatti, nello scegliere l'equipaggio aveva
promesso un posto a due piloti: Bertaud e me E fu allora che si complicò tutto..
e il disastroso epilogo della vicenda avvenne nel maggio del 1927 quando era
tutto pronto per entrare nella leggenda.
Sarà
stato il desiderio di Levine di partecipare a quel volo, sarà stato il
nervosismo che serpeggiava fra tutti noi, pronti a volare ma impossibilitati a
farlo per il maltempo, sarà che eravamo preoccupati che qualcuno potesse
accendere i motori e fregarci, il clima non era certo idilliaco e cominciarono
gli attriti e le discussioni.
E
una sera Levine stracciò il contratto con Bertaud ed io pensai che era tutto a posto,
potevamo fare la trasvolata oceanica.
Il
primo stop però avvenne il 16 maggio. Si era sparsa la voce che stessimo per decollare, e una folla enorme, sperando di
assistere al volo, si riversò al Roosevelt Field. La nebbia segnalata
sull’Atlantico consigliò però di rimandare la partenza. “È probabile – scrisse
il corrispondente del “Giornale di Sicilia” – che l’apparecchio del costruttore
italiano compia domani un volo New York-Washington come prova definitiva circa
la bontà dell’apparecchio”.
Passarono
tre giorni. Il 19 maggio, mentre su New York scendeva una leggera pioggia,
Lindbergh, dopo aver constatato che il maltempo si era attenuato e che le
previsioni erano buone, decise di ritornare immediatamente all’aereoporto e
rifornire di carburante il suo aereo. All’alba del 20 maggio si alzò in volo;
il resto è storia.
Vi
chiederete: Cosa impedì all’aereo di Giuseppe Bellanca di prendere il volo e battere
quel record? Sia lo Spirit of St. Louis che il Columbia erano al Roosevelt
Field pronti per il decollo e per volare verso Parigi. Perché l’aereo di
Bellanca, che era sicuramente il più affidabile e il più veloce, non si alzò in
volo?
La
risposta è semplice e allo stesso tempo drammatica. Lloyd Bertaud, dopo che
Levine aveva stracciato il contratto era offerto di comprare l’aereo; ma così
come aveva fatto con Lindbergh, l’eccentrico miliardario americano si rifiutò
di venderlo.
Per
tutta risposta, sentendosi defraudato e vedendosi tolta la possibilità di
essere il primo aviatore a sorvolare l’oceano, citò per danni la società.
Bertaud sapeva che il Columbia era più veloce e che avrebbe vinto sicuramente
la gara, ma la rottura con Levine lo aveva privato della possibilità di entrare
nella storia dell’aviazione. Chiamò quindi in giudizio la Columbia Aircraft e
ottenne il sequestro dell'aereo.
Così,
mentre il nostro aereo, il Bellanca WB2 era sotto sequestro per ordine della
Suprema Corte, il 20 maggio 1927 Lindbergh partiva per il suo storico volo in
solitario da New York a Parigi; e il 16 giugno di quell’anno, a New York,
riceveva il premio dalle mani di Raymond Orteig.
Ecco,
questa è l’esatta ricostruzione di come si sono svolti i fatti.
Peppino
Bellanca, un siciliano emigrato in America con pochi soldi e diventato il più
famoso costruttore di aerei fu beffato da una disputa fra il suo socio ed un
pilota delle linee postali.
Due
settimane più tardi, il 4 giugno del 1927, il Columbia – ormai liberato dalle
dispute legali e dopo aver cancellato dalla carlinga la scritta Paris – decollò
con successo per il volo verso la Germania. In cabina con me c’era Charles Levine, che è entrato nella storia dell’aviazione
essendo stato il primo passeggero in un volo transatlantico.
Beh,
Giuseppe Bellanca adesso è nella Hall of fame dell’aviazione mondiale, lui ha messo
i paracadute dentro gli aerei, ha inventato la cabina pressurizzata e per la
prima volta ha dotato un aereo di una radio per le comunicazioni. Insomma, se
prendete un aereo oggi, tutto ciò che c’è dentro è una invenzione di un
piccoletto siciliano, emigrato in America con un sogno: volare. Ma se chiedete
in giro, qui in Sicilia in pochi lo conoscono, di contro, se vi capiterà di
andare nel Museo dell’aviazione di Washington andate a visitare le tre grandi
stanze dedicate a Bellanca.
Un
grande siciliano.
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