L'idea
di scrivere “Aspettando Mr. Wolf” mi è venuta entrando in una
libreria e notando che oltre alle varie sezioni, letteratura,
scienze, politica, religione, c'era anche una sezione con la scritta
“mafia” e che la maggior parte di quei libri erano scritti da
giornalisti più o meno famosi che però, in qualche modo avevano
intervistato un mafioso (pentito) e ci avevano fatto un libro. Mi è
venuto da pensare che la mafia fosse diventata un genere letterario e
che i giornalisti avrebbero dovuto scrivere quelle cose sui loro
giornali di riferimento e non raccogliere tutti gli appunti e
pubblicarli con case editrici più o meno specializzate
sull'argomento. Ma poi ho pensato che un libro va a finire nelle
biblioteche (di casa e nazionali) mentre un giornale, dopo averlo
letto si butta e quindi, per la notorietà futura, un bel libro
scritto da un giornalista che intervista un mafioso poteva essere un
buon lasciapassare per la notorietà e per uscire dall'anonimato.
Insomma, non ci trovo niente di buono in questo e non credo nel
pentimento di una persona che ha alle spalle decine di omicidi.
E
allora ho deciso di inventarmi una intervista in cui non ci fosse
niente di vero ma al tempo stesso niente di falso. Per fare questo ho letto dichiarazioni nei processi, negli interrogatori e risultanze di indagini pubblicate nel corso degli ultimi anni per capire meglio il funzionamento di un mandamento mafioso, e man mano leggevo più mi sembrava di scorgere corrispondenze con una qualsiasi organizzazione o con un soggetto qualsiasi che presume di detenere una "forma" di potere". Dal vigile urbano al direttore di una banca, fino a quei personaggi che diventano famosi come paladini dell'antimafia e poi si scopre che adottano un sistema non certo legale. Potrei dire che la "mafiosità" è prima di tutto una condizione mentale e che molte volte deriva dal "fantomatico" ruolo che si ha in società
Non volevo dare ai
miei personaggi nessuna connotazione (il mafioso è il cattivo e il
giornalista è il buono), ma volevo che tutta la situazione fosse
quasi paradossale, in cui il più “cattivo”, all'apparenza, fosse
il direttore del carcere che si lamenta della sua condizione di sfruttato dal "sistema" e dai politici, mentre
l'intervista procede senza un apparente filo logico. Non volevo dare
al giornalista l'aurea di “unico titolato a parlare di mafia” e
al mafioso il ruolo di “ignorante” e, a dir la verità mi è
venuto abbastanza facile metterli entrambi sullo stesso piano: quello
del “nuddu ammiscatu cu nenti” che cerca un momento di
rivalsa e notorietà.
Infine,
siccome l'intervista al mafioso rientra ormai nei canoni della
letteratura e molti editori fanno a gara per accaparrarsene una, ho
deciso di trasformare l'intervistatore in una sorta di Roger "Verbal"
Kint, ovvero nel personaggio interpretato da #Kevin Spacey nel film “I
soliti sospetti”. Per fare questo, ho dovuto modificare la parte
centrale del racconto e lasciare al lettore piccoli indizi senza però
svelare il risultato finale. Credo di esserci riuscito e sarà
contento Keyser Söze.
In
originale il titolo doveva essere “Anche Mosè era un uomo d'onore”
ma considerato “troppo forte” per l'eventuale avventore delle
librerie, abbiamo deciso per “Aspettando Mr. Wolf” a metà strada
fra “Aspettando Godot” di Beckett e il Mister Wolf di #Quentin
Tarantino che conciliava bene la perenne attesa di uscire
dall'anonimato con la necessità che arrivi qualcuno a dare una
spinta. Come nei libri di mafia, in cui se non hai un mafioso da
intervistare rimani un anonimo giornalista.
Senza
offesa per nessuno!
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