CAPITOLO I
Giuseppina
Martorana morì venerdì 13 marzo 1991 con dieci anni di ritardo rispetto al
previsto.
I dottori le avevano dato poco tempo da vivere quando un
decennio prima era stata portata in ospedale per una caduta accidentale con
conseguente frattura del femore. In più aveva un fastidioso principio di
raffreddore. Fatto due più due, operata e ingessata, i medici dichiararono che
l'operazione era andata bene, ma che considerata l'età e lo stato di salute
cagionevole della donna potevano insorgere conseguenze abbastanza gravi e non
prevedibili. E consigliarono ai parenti di riportarsela a casa. Quella
scivolata non prevista causata dal pavimento ancora bagnato e il bollettino
medico non certo incoraggiante fecero temere il peggio e suscitarono nella
famiglia una forte preoccupazione buttando nello sconforto la piccola nipote
Rosalia; una bimba di dieci anni diventata suo malgrado la confidente preferita
della nonna alla quale raccontava momenti della sua vita.
Quando nonna Peppina, a causa del pavimento bagnato scivolò
nel bagno e sbatté contro il bidet urlando qualcosa in francese, aveva compiuto
da poco ottanta anni. Era nata il 28 giugno del 1901, passato indenne due guerre, sopravvissuta ad
anni di fame e privazioni, fatto tutti i lavori possibili e immaginabili e,
considerato che suo figlio, per fortuna, aveva un buon lavoro e il resto della
famiglia stava discretamente bene, passava il tempo a predire il futuro con i
suoi tarocchi a chi glielo chiedeva ed a togliere il malocchio alle zitelle del
paese che per accaparrarsi un fidanzato non esitavano a maledirsi a vicenda
augurando alla potenziale rivale in amore tutti i peggiori mali esistenti al
mondo. Quel giorno i medici non diedero un responso chiaro sulle condizioni di
salute e su cosa intendessero con quel “preparatevi al peggio”, ma da quel
“preparatevi” al giorno della sua morte passarono altri dieci anni.
Quel venerdì,
dopo aver finito di mangiare, la vecchia si alzò da tavola, chiuse la porta
della sua camera, si sedette sulla vecchia sedia a dondolo e accese la tv per
guardare l'ottava puntata dello sceneggiato “I miserabili”. Aveva una cotta per
Gastone Moschin e quindi non perdeva nemmeno le repliche. Nessuno, tanto meno
sua nipote Rosalia poteva immaginare che aprendo la porta l'avrebbe trovata con
la testa reclinata e senza vita mentre sullo schermo del piccolo televisore
scorrevano i titoli di coda.
Erano le tre e mezzo del pomeriggio e da quel momento in
poi perse anche tutte le puntate di “Portobello”.
Nonna Peppina
viveva insieme a suo figlio Nicola, alla nuora Palmira e alla sua unica nipote
Rosalia in una piccola casa di mattoni in Via dei Cipressi. Una viuzza stretta
e polverosa, coi marciapiedi stretti e ammattonati male quasi all'uscita del
paese ma molto trafficata perché oltre ad essere una via d’uscita per chi
volesse andarsene, era anche quella che conduceva al cimitero. Insomma, era
l’unica strada che si poteva percorrere sia da vivo che da morto.
Considerata la posizione geografica e la vicinanza al
camposanto, era una delle poche zone del paese che aveva resistito alla
cementificazione, conservava ancora le casette ad un piano con i tetti fatti di
tegole gialle e alla fine della strada resisteva l’unica fontanella ancora
intatta dalla quale (ogni tanto) sgorgava l’acqua che proveniva da una sorgente
di montagna. Ed era anche per questo motivo che nessuno dei vecchi proprietari se
n’era mai voluto andare. Ma la vera ragione, quella che li spingeva a rimanere
nelle loro piccole casette e rifiutare un bell’appartamento in centro era la paura
della solitudine, il non aver nessuno con cui parlare.
Via dei Cipressi era stretta si, ma dentro ognuna di
quelle case ci abitava una famiglia che stava lì da decenni e bene o male
(dall’inizio alla fine della strada) si conoscevano tutti. Erano (come dire)
vicini di casa a distanza. E allora perché andarsi ad infilare in una di quelle
nuove abitazioni a cinque o sei piani che erano spuntate come funghi, creato
nuovi quartieri e rovinato la bellezza del paese? Palazzine dalle quali, anche
affacciandosi al balcone non si vedeva né un filo d'erba né anima viva con cui
parlare.
In paese nonna
Peppina era conosciuta da tutti, ma i giudizi su di lei, come capita spesso a
chi si costruisce una certa fama, erano contrastanti e derivavano non solo
dalla sua capacità di leggere i tarocchi, ma soprattutto dal fatto che nessuno
dei compaesani conosceva il suo passato, quindi per uno strano codice etico non
scritto, era lecito inventarsi di tutto. Qualcuno la identificava con una
vecchia fattucchiera che aveva fatto un patto col diavolo, molti la
consideravano una santa donna che con le sue carte aveva aiutato ed aiutava
tante persone in difficoltà. Per i più giovani era semplicemente nonna Peppina,
la madre di Nicola, quello che vendeva CD di canzone napoletane e ogni giorno
girava il paese col suo piccolo carretto e la musica a tutto volume.
Di Nonna Peppina si diceva che
sapesse leggere i tarocchi perché da giovane aveva frequentato, seppur per poco
tempo, quella vecchia villetta in contrada Santa Barbara che tutti conoscevano
come l'Abbazia di Thelema. Ma erano solo voci, chiacchiere di paese non
confermate e messe in giro da vecchie invidiose rincitrullite con gli anni...
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